L’infelice Invenzione del Genere

Aprile 26, 2013

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Il genere è l’indicatore linguistico della opposizione politica tra i sessi. Genere è qui utilizzato al singolare perché, in effetti, non si hanno due generi, ma uno solo: il femminile. Il “maschile” non è un genere, perché il maschile non è il maschile, ma il generale. Ciò che si ha è il generale e il femminile, o meglio, il generale e il marchio del femminile[1].

Quasi tutti i manuali di antropologia, storia, cinema, letteratura, filosofia dedicano almeno un capitolo alle donne o nel lungo elenco delle voci inascoltate della storia e dei movimenti forieri di cambiamento, vi inseriscono anche quelli delle donne. Segno questo di grande magnanimità, di una raggiunta parità, o forse di una ostinata cecità e svista epistemologica? La sostanziale incapacità dei saperi di farsi attraversare trasversalmente dalle tante voci di donne susseguitesi nella storia, sembra essere il sintomo di una tenace, irrazionale riluttanza che si spinge fin quasi al ridicolo. Il risultato di questa bizzarra caparbietà è la collocazione della Storia delle donne in contenitori disciplinari creati ad hoc. La storia ci insegna che gli errori del passato vengono spesso riparati con pubblici riconoscimenti, cerimonie commemorative e ritagliando piccoli spazi per chi ne era sprovvisto.

La questione che ci preme affrontare in questa sede, non ha a che fare con la misura del potere che è stato parsimoniosamente concesso alle donne, né con la rivendicazione di una differenza virtuosa, che pure ha avuto un senso per un certo momento della storia del femminismo. Piuttosto vorremmo porre la nostra attenzione su quella parte del movimento femminista e non, che ha posto questioni cruciali per una profonda e proficua analisi del concetto di genere: questioni che hanno a che fare con le modalità attraverso le quali si costituisce il soggetto donna, con l’immaginario e con la “produzione delle condizioni di visibilità per un soggetto sociale diverso”[2]. Dobbiamo esplicitare il modo in cui il genere viene inteso nella nostra esposizione, non prima però di aver fatto alcune brevi considerazioni sul mutato rapporto tra realtà e immaginazione e sulla resistenza che sembra esserci nel considerare il genere alla luce di questo profondo cambiamento, resistenza la cui derivazione è, secondo noi, imputabile al ruolo marginale, accidentale che vi si attribuisce.

Riteniamo possibile affermare che la netta separazione tra linguaggio e mondo, natura e cultura, sembrano essere ormai superate e che i termini del rapporto tra realtà e illusione sono profondamente mutati. La complessità del rapporto tra soggetto, realtà e rappresentazione di entrambi è ormai incontrovertibile. Umberto Eco afferma a tal proposito che l’idea forte di codice, come mera traduzione del reale, legata al sistema dei segni da una relazione di equivalenza, sia il frutto di «una ossessione unificante, quella della dialettica tra legge e creatività, o – secondo le parole di Apollinaire – della lotta costante tra l’Ordine e l’Avventura»[3]. La semiosi si delinea come un processo di segmentazione dell’esperienza, un processo interpretativo, contestuale, che presuppone un soggetto, anzi dice l’autore «la scienza dei segni sembra coincidere con la storia della costituzione del soggetto»[4]. Nella sua critica all’idea forte di codice Eco dice:

 

Il segno come uguaglianza e identità è coerente con una nozione sclerotizzata ( e   ideologica) di soggetto, il segno come momento (sempre in crisi) del processo di semiosi è lo strumento attraverso il quale lo stesso soggetto si costruisce e si decostruisce di continuo. Il soggetto entra in crisi benefica perché partecipa della crisi storica (e costitutiva) del segno. Il soggetto è ciò che i processi continui di risegmentazione del contenuto lo fanno essere […] Solo la mappa della semiosi, come si definisce a un dato stadio della vicenda storica (con la bava e i detriti della semiosi precedente che si trascina dietro), ci dice chi siamo e cosa (o come) pensiamo[5]

Il soggetto non può pertanto essere inteso né come istanza trascendentale, né solo come individuo concreto, né completamente agito, passivo, né completamente libero: è un soggetto implicato nel processo, processo che sebbene possa essere indagato nelle sue forme interpretative storiche, nelle sue metafisiche implicite, rappresenta anche l’indicibile, ciò che non può essere mai colto una volta per tutte in una concettualizzazione sistematica, fissa e rigida. Possiamo ora chiederci in che modo il soggetto interpreta la propria realtà fenomenologica ed esistenziale? Come selezioniamo e interpretiamo dunque gli elementi pertinenti ed in relazione a cosa li consideriamo tali? Che ruolo hanno la percezione, il corpo? Se è bene, come dice Eco, esplicitare e indagare i presupposti, le metafisiche implicite, attraverso i quali diamo senso alle esperienze e i modi attraverso i quali il soggetto si costituisce, possiamo considerare il genere una semplice variabile e per di più indifferente a questi processi? Se il processo di semiosi è aperto, lo è indifferentemente per uomini e donne? Lo è allo stesso modo? Possiamo parlare dell’implicazione soggettiva in questi ultimi, implicazione che abbiamo detto essere sensoriale, corporea, storica, senza considerare la cancellazione storica ed esistenziale, nonché fisica, delle donne, senza mettere in questione i modi attraverso i quali si presenta lo spazio semiotico del già detto e dell’indicibile ai soggetti donne?

Per tentare di chiarire il senso di queste domande, prendiamo in considerazione la differenza sessuale da una prospettiva semiotica, intendendola come categoria interpretativa cruciale e facciamo riferimento all’attenta analisi che ne fa Patrizia Violi[6]: la differenza sessuale, dice l’autrice, è un elemento costitutivo del linguaggio e delle forme di simbolizzazione che vi sono iscritte, in quanto esse affondano le radici nelle forme profonde di attribuzione del senso legate al corpo; la differenza sessuale, secondo le sue osservazioni, sembra giocare un ruolo determinante nell’attribuzione di valore e senso all’esistenza e non è riducibile alle sue rappresentazioni, al prodotto/contenuto di tali rappresentazioni, che piuttosto sono conseguenza di una strutturazione del significato che sta a monte. Questa strutturazione porta il segno della storia dell’iscrizione del sesso maschile nel linguaggio, iscrizione attraverso la quale il soggetto è stato reso neutro, la sua sessualità è stata occultata e resa assoluta attraverso meccanismi impliciti. Se da un lato dunque la sessualità è stata occultata e resa assoluta, dall’altro è stata ridotta a dualismo, alla dicotomia maschile/femminile, in cui il secondo termine è derivato e opposto del primo. Il femminile, derivazione del maschile e sua negazione, assenza dei tratti ritenuti pertinenti ai fini dell’assunzione della posizione di soggetto, non può in tale struttura semantica che assumere il ruolo di oggetto, oggetto di indagine, di discorso, senza mai essere interrogato in modo autonomo. Seguendo poi Luce Irigaray[7] nella sua analisi del pensiero freudiano, la donna è un uomo senza certi attributi, senza la capacità di rappresentarsi come uomo, senza fallo, simbolo per eccellenza della capacità di autorappresentazione, simbolo del ritorno all’origine attraverso il corpo della donna in una continua rinascita del sé medesimo, maschio. La femminilità, oggetto del proprio sapere, si declina in relazione ad un soggetto assoluto, asessuato, obbiettivo. Sembra pertanto nascondersi dietro il desiderio di sapere e narrare il femminile un meccanismo che non è riducibile alla limitazione della libertà, alla proibizione, ma piuttosto sembra emergere come desiderio, prendendo a prestito le parole di Foucault, «costitutivo di un potere la cui riuscita è proporzionale alla quantità di meccanismi che riesce a nascondere»[8].

L’opposizione maschile/femminile, non già derivazione di un puro dato naturale è investita di un sistema di valorizzazioni che delinea a livello profondo lo spazio semantico del femminile e del maschile. Sebbene, dice Violi, l’investimento simbolico può aver perduto la sua portata semantica e quindi non essere percepito «tuttavia la forma linguistica continua a funzionare come possibilità generatrice di senso e di metafore e queste metafore altro non sono che il riflesso del simbolismo iniziale che è andato perduto»[9]. L’assunzione della differenza sessuale sembra essere universale e strettamente connessa con l’immaginario, la percezione e le rappresentazioni del femminile e del maschile; il campo metaforico del femminile si presenta sin dall’inizio segnato da una “isotopia ricorrente” in cui l’oggetto è femminile e il femminile è oggetto[10]. Dice De Lauretis:

 

Medusa e la Sfinge, come gli altri mostri dell’Antichità, sono sopravvissute perché inscritte in racconti di eroi, in storie altrui, non nella propria. Esse sono figure o segnali di posizione (luoghi o topoi) attraverso i quali l’eroe e la sua storia transitano verso la loro destinazione e verso il senso compiuto[11]

Le donne sono rappresentate dunque come il limite da superare, il confine, la foresta oscura con i suoi enigmi. Anche secondo De Lauretis la presupposizione della differenza sessuale è implicita nel soggetto mitico, l’eroe:

In questo meccanismo mitico-testuale, allora l’eroe dev’essere maschio, a prescindere dal genere dell’immagine-testo, perché l’ostacolo, qualunque sia la sua personificazione, è morfologicamente femminile ed è in realtà semplicemente l’utero. Questa è una considerazione importante. Poiché se il compito della strutturazione mitica è di stabilire distinzioni, la distinzione primaria da cui dipendono tutte le altre non è poniamo, quella tra vita e morte, ma invece la differenza sessuale. In altre parole, l’immagine del mondo che si è prodotta nel pensiero mitico sin dagli albori della cultura poggerebbero, innanzi tutto e soprattutto, sulla cosiddetta biologia. Coppie di opposti come dentro/fuori, il crudo/il cotto, o vita/morte sembrano semplici derivati dell’opposizione fondamentale tra confine e passaggio. E se il passaggio può essere in entrambe le direzioni, da dentro a fuori o viceversa, dalla vita alla morte o viceversa, ciò nondimeno tutti questi termini si basano sulla singola figura dell’eroe che oltrepassa il confine e penetra nell’altro spazio. Nel fare questo l’eroe, il soggetto mitico, si costituisce come essere umano e come maschio: egli è il principio attivo della cultura, colui che stabilisce distinzioni, il creatore delle differenze. Il femminile è ciò che non è suscettibile di trasformazione, di vita o di morte: è un elemento dello spazio-intreccio, un topos, una resistenza, matrice e materia[12].

Intesa in questi termini, la differenza sessuale sembrerebbe dover assumere un ruolo centrale nell’analisi dei processi culturali, semiotici, narrativi, epistemologici.

Tuttavia essa sembra essere immune a qualsivoglia cambiamento di prospettiva teorica, sembra essere ignorata come strumento di analisi dei saperi, indifferente alle teorie d’avanguardia, chiusa negli spazi accademici faticosamente conquistati riservati alle pari opportunità. I discorsi sulla differenza sembrano ancora essere circoscritti da un lato all’opposizione uomo/donna, cultura/natura e dall’altro al tentativo di superare la sessualità biologica, col rischio però di trascendere il corpo, la sua materialità storica. Talvolta imbrigliate nel ruolo di vittime del sistema androcentrico, talaltra ricondotte alla natura attraverso l’esaltazione del rapporto donna/natura/corpo, o ancora rivestite dei panni di sovvertitrici dell’ordine patriarcale, per le donne difficilmente, dice Patrizia Violi, si riesce a vedere «forme diverse da quelle altamente culturalizzate dell’avanguardia»[13].

Si è assistito all’attenta analisi delle rappresentazioni del femminile da parte del movimento femminista, analisi imprescindibile ai fini del nostro discorso, da cui sono derivate strategie di neutralizzazione degli affetti negativi di tali rappresentazioni, esplicitando e tentando di eliminare la marcatura sessuale dai discorsi. Parallelamente procedevano e procedono  i tentativi di ribaltare il senso del femminile in positivo. Il potere che si tentava di arginare è un potere che sembra agire dall’esterno, un potere le cui strategie sembrano essere l’oppressione e la limitazione della libertà. A questa semplificazione si oppongono ben altre considerazioni: le rappresentazioni e le auto rappresentazioni sembrano essere possibili attraverso la connessione del soggetto con  i valori, i simboli, attraverso le relazioni che il soggetto istaura con i codici, il linguaggio e i suoi significati socialmente costruiti. Questo processo dunque non avviene in maniera automatica, solo condizionante per il soggetto, ma è un processo in cui il soggetto è implicato. Per comprendere bene il senso di questa implicazione seguiamo quando detto da Butler a proposito della soggettivazione/assoggettamento:

 

L’assoggettamento è, sì, un potere esercitato su un soggetto, ma ciononostante è anche un potere assunto dal soggetto, assunzione, questa, che costituisce lo strumento stesso del divenire del soggetto […] Qualsiasi tentativo di opporsi a tale subordinazione deve necessariamente presupporla e a essa appellarsi[14]..

Sgombrato il campo da considerazioni semplicistiche, dalla semplice constatazione che il genere sia una costruzione culturale, i meccanismi attraverso i quali opera il potere, meccanismi discorsivi e performativi, sembrano agire delineando posizioni soggettive esistenziali desiderabili, posizioni che evocano il soggetto e lo implicano nel suo farsi. I termini del rapporto tra soggettivo e sociale, il coinvolgimento nelle pratiche di soggettivazione, assoggettamento e resistenza, assumono in questa prospettiva una nuova fisionomia. Il farsi dei soggetti donne, le possibili figure di identificazione, il modo in cui le donne partecipano, aderiscono, sfuggono a tali figure, le contraddizioni insite nei processi identitari, assumono ruolo centrale per una possibile ed auspicabile autocoscienza culturale, che lontana da riduzionismi psicologici, contribuisca a delineare nuove epistemologie, ponendo la questione dell’autonomia filosofica e teorica della soggettività femminile, questione che non può prescindere dalla ricerca di un termine referenziale diverso dal maschile.

L’esistenza storica di contraddizioni irriducibili tra il soggetto e le rappresentazioni del soggetto, nel rapporto tra  “la donna” e le donne soggetti storici, spiegate diversamente, ci dicono qualcosa di più dunque del semplice addomesticamento soggettivo o delle possibili pratiche di resistenza a questo potere; il proliferare di voci critiche, secondo De Lauretis, ha contribuito a creare una distanza dai significati attribuiti al femminile, rompendone la coerenza interna, aprendo uno spazio di contraddizione, destabilizzando il significato di queste rappresentazioni. L’analisi delle stratificazioni semantiche e discorsive, delle presupposizioni delle narrazioni sulla femminilità e l’analisi di come si costruisce la soggettività anche in relazione ad esse, di come il soggetto viene evocato, inserito in questa costruzione di senso e di come vi sfugge, non possono dunque prescindere dall’immaginario, dal corpo, dall’esperienza del genere. De Lauretis dice:

 

L’esperienza è prodotta non da idee, valori, cause materiali esterne, ma dal coinvolgimento personale e soggettivo nelle pratiche, nei discorsi e nelle istituzioni che conferiscono significato (valore, senso, affettività) agli eventi del mondo” [15].

Essere rappresentate come oggetti, oggetti di indagine, oggetti di discorso, oggetti dello sguardo ha significato e significa per le donne essere segnate da una profonda distanza interiore, da una contraddizione, uno spazio vuoto di significato e di parole.

Nicla Vassallo, a ragione, chiama questa rappresentazione col suo nome: violenza. Dice infatti:

 

“Quando ci troviamo di fronte al fatto che le donne vengono marginalizzate come oggetti di conoscenza, inclusa la conoscenza scientifica, si può parlare a ragion veduta di violenza epistemologica perpetuata nei confronti delle donne; quando ci troviamo di fronte al fatto che alle donne viene rifiutato lo status di soggetti di conoscenza, di soggetti capaci di conoscere, e quindi anche lo status di scienziate, è preferibile parlare di violenza epistemica. E non bisogna dimenticare forme per così dire sottili di violenza, che hanno luogo anche quando alle donne viene riconosciuto, almeno formalmente, il ruolo di soggetti conoscenti” [16],.

La storia dei movimenti femministi è caratterizzata dal tentativo di colmare questo spazio di contraddizione, di vuoto, attraverso la produzione di una visione/presenza sociale diversa, attraverso le parole, attraverso la scrittura, attraverso la produzione di forme culturali, attraverso l’affermazione del proprio sguardo. Le tracce di questa presenza tuttavia sono ancora ignorate o relegate in spazi accademici ad esse dedicate, operazione questa che ne attesta implicitamente la settorialità; la storia e la cultura sembrano essere reticenti a farsi attraversare da questi saperi.

Ma torniamo a noi: il tentativo di distruggere la visione androcentrica, lascia il passo alla creazione di un’altra visione, alla costruzione di altri soggetti di visione. L’opposizione, che risponde a logiche di unità, mostra tutta la sua fallacia e incapacità esplicativa ed interpretativa. La rappresentazione in positivo del femminile si accompagna ad una operazione ben più articolata, in cui diventa prioritario pensare ad un termine referenziale diverso: le donne. Si sta lavorando nel cinema, nella letteratura, nella storia per creare una diversa misura del desiderio femminile. La narrativa, il cinema, la storia, la scienza diventano non semplici apparati che riproducono o costruiscono immagini, visioni sociali, ideologie, ma pratiche di significato, lavori semiotici, che producono effetti di significato nonchè percettivi, evocando posizioni soggettive per coloro che ne sono implicati, per i soggetti coinvolti, rappresentati, iscritti. L’attenzione si sposta dalle immagini delle donne rappresentate, alle donne rappresentate come immagini, alle condizioni della presenza dei soggetti donne, alla produzione dell’immaginario, alle relazioni produttive delle immagini. Cos’è dunque la rappresentazione? Per Teresa De Lauretis è l’immagine mentale e la funzione del segno, il lavoro sociale del segno che prende forma nel discorso, in cui entrano in gioco il movimento, la profondità, la condensazione di spazio e tempo, le posizioni soggettive, le diverse situazioni comunicative di scrittrice e lettrice, regista, spettatrice, etc. Queste complesse pratiche di significato poi trascendono il livello individuale, personale: piuttosto sono relazioni produttive in cui il soggettivo e il sociale prendono forma attraverso la comprensione, i valori, l’immaginario[17].

Possiamo dunque volgere lo sguardo a quella parte della critica femminista che mette in questione i modi attraverso i quali i soggetti donne sono implicati nelle pratiche discorsive dei saperi, attraverso l’analisi delle diverse situazioni comunicative, delle condizioni di ricezione/enunciazione, delle dinamiche del desiderio e dello sguardo nei processi di visione/comunicazione. Seguendo queste analisi possiamo affermare che i soggetti non sono solo nei discorsi o fuori dai discorsi, piuttosto li “intersecano”[18].

In tal senso comprendiamo bene De Lauretis quando dice che “le strategie di lettura e di scrittura sono forme di resistenza culturale”, intendendo che esse non operano solo per scardinare i discorsi dominanti, per affievolirne l’articolazione e le stratificazioni sulle quali si costruiscono, ma per sfidare la teoria nei suoi stessi termini, termini di uno spazio semiotico di potere costruito nel linguaggio. L’unico modo, dice l’autrice, per collocarsi fuori dai discorsi, da questo spazio di potere è rigettare i termini in cui le questioni sono state formulate, o rispondervi in modo deviante, operando una dislocazione e creando uno spazio di contraddizione al loro interno, o meglio rendendone visibili le contraddizioni. L’importanza di queste strategie testuali e discorsive non è riducibile alla loro capacità di rendere visibile ciò che è stato reso invisibile, di esplicitare il vuoto di significato o la ridondanza di significato attribuiti al femminile; piuttosto esse contribuiscono a rendere possibile la produzione di condizioni di visibilità per un soggetto sociale diverso[19].


[1] M. Wittig (1980), Il punto di vista: universale o particolare? In The Straight Mind and other essays (1992).

[2] Cfr. T. De Lauretis Alice doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema, Macmillan Press, 1984.

[3] P. Violi, Significato ed esperienza, Bompiani , Milano 1997, p. 302.

[4] U. Eco Segno e inferenza, Piccola Biblioteca on-line, tratto da Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1997, p. 59.

[5] Ivi, p.50 e 58.

[6] Cfr P. Violi L’infinito singolare. Considerazioni sulla differenza sessuale nel linguaggio, Essedue Edizioni, Verona 1986.

[7] Cfr. Luce Irigaray Speculum. L’altra donna, Feltrinelli, Milano 1990.

[8] Michel Foucault La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 2005, p.69 (prima Edizione 1976).

[9] P. Violi L’infinito singolare, cit., p. 64.

[10] Cfr. T. De Lauretis, Sui Generis. Scritti di teoria femminista, Feltrinelli Editore, Milano 1996

[11] Ivi, p. 43.

[12] Ivi, p. 54.

[13] P. Violi L’infinito singolare. Considerazioni sulla differenza sessuale nel linguaggio, cit., p. 30.

[14] J. Butler La vita psichica del potere, Meltemi Editore,  Roma 2005, p. 17.

[15] T. De Lauretis Sui generis. Scritti di teoria femminista, cit., p. 10.

[16] N. Vassallo, Donna m’apparve, Codice Edizioni, Torino 2009, p.12.

[17] Cfr. T. De Lauretis Alice doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema, cit.

[18] Ibidem.

[19] Ivi, p. 7.

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