Nuovi Soggetti Epistemologici

Aprile 19, 2013

1. Ripercorrere la storia

La sovversione è un fenomeno contestuale, storico e soprattutto sociale. Per quanto il potenziale “destabilizzante” di un testo possa eccitare a livello corporeo o su altri piani, il fatto che esso sia di rottura o di mediazione, l’una o l’altra cosa o nessuna, non può essere determinato che a condizione di non astrarre dalle pratiche sociali correnti. Susan Bordo.

 Teoria e pratica, particolare e universale, politico e personale: questi i nodi critici significativi del movimento femminista degli anni ’70, questi i nodi critici dei femminismi contemporanei. Abbiamo cercato e cerchiamo tutte di colmare in modo produttivo ( produttivo di sapere, cultura, relazioni ) il divario secolare tra la singola e le altre.

Quando le lesbiche lottano per  sé e anche per l’aborto, quando le eterosessuali lottano per sé e anche per le lesbiche, quando le nere parlano per sé e anche per le bianche e viceversa, ricompongono il legame tra personale e collettivo, restituiscono dignità alla propria integrità e coprono la misura del divario, costruito nei secoli e ben saldo, tra sé e l’altra.

Quando le lesbiche rivendicano la loro scelta, quando le eterosessuali rivendicano le loro relazioni con gli uomini,  quanto le nere affermano la loro differenza, partendo dai corpi e non solo, la particolarità esistenziale di ognuna diventa talvolta di intralcio alla lotta comune, il divario mostra la sua reale portata, l’universale “donne” svela la sua incapacità di rispondere ad una fondamentale esigenza di inclusività materiale, reale, simbolica. Sul piano teorico i tentativi di ricomporre il divario sono tanti, diversi. Pur registrando l’esistenza di numerose realtà culturali e politiche, non possiamo non cogliere la loro frammentarietà e l’incapacità di tradursi in relazioni di portata generale significativa. Attribuiamo questa incapacità alla distanza abissale tra teoria e pratica, all’irrisolto rapporto tra universale e particolare, tra personale e politico, all’incapacità della pratica di nutrirsi della teoria, all’incapacità della teoria di farsi pratica e di creare relazioni significative tra donne, relazioni che siano capaci per la loro forza e diffusione di costituire un terreno di libera espressione delle differenze tra donne, un terreno non disgregante: queste relazioni dovrebbero essere in grado di creare ponti stabili con le istituzioni, di affermare nelle istituzioni i propri discorsi e le proprie relazioni senza esserne fagocitate e sgretolate.

Diciamo tutto questo per un motivo molto semplice: abbiamo iniziato il nostro approccio allo studio del Centro Culturale Virginia Woolf in modo molto critico; ci siamo rese conto nel corso del nostro studio che la nostra critica lasciava gradualmente il posto ad una domanda sul presente ed allora, senza arrivare ad inutili trionfalismi, l’esperienza del Virginia Woolf si è trasformata in un utile esempio, in uno strumento che serve ad interrogarci sul nostro tempo e su ciò che stiamo facendo noi oggi e ci induce a chiederci/vi se le nostre relazioni siano davvero diverse.

 

Ricostruire la storia del Virginia Woolf ha significato e significa ripercorrere un pezzo importante di storia del movimento femminista italiano e tracciare il filo di una serie di discorsi a noi ancora molto vicini. Riprenderemo nel nostro intervento alcune delle questioni oggetto di studio del Woolf, attualizzandole e interrogandoci rispetto al presente su di esse. Insomma ci sembra importante, se non addirittura urgente, non solo chiederci a che punto è la nostra riflessione teorica su alcuni dei nodi cruciali del femminismo, ma anche interrogarci sul grado di aderenza di queste riflessioni alla realtà delle nostre relazioni: le nostre relazioni sono integrate con la cultura politica femminista, con la teoria femminista e in che modo? Su cosa poggia il nostro stare insieme oggi? Possiamo continuare ad essere feroci con chi è venuta prima di noi, tra l’altro decontestualizzando i dibattiti, e allo stesso tempo autoassolverci nel momento in cui non sappiamo noi stesse rendere conto delle nostre relazioni? E poi, non sappiamo davvero renderne conto o forse non riusciamo a trovare spazi di analisi e di espressione delle nostre riflessioni in merito?

 

Il Woolf nasce dal movimento degli anni ’70, dallo scontro con le istituzioni, dalla contraddizione uomo-donna, dall’analisi del rapporto tra politica, cultura e ideologia[1]. Fondamentale in quegli anni era analizzare il rapporto che le donne intrattengono con la cultura, estrapolando, facendo propri e condividendo i saperi delle tante donne che vi parteciparono. Emerge dalla sua storia uno scenario critico nei confronti della cultura, nei confronti delle classiche dicotomie che hanno tenuto le donne inchiodate ad un polo subalterno, invisibile. Le organizzatrici e le “fruitrici” del Centro ipotizzano e mettono in atto un’imitazione consapevole dei saperi costituiti, finalizzata alla destabilizzazione e trasformazione dei saperi stessi. Tale trasformazione avviene attraverso la decostruzione del sessismo, la ristrutturazione della conoscenza a partire da una prospettiva in cui la donna assume posizione centrale, la  valorizzazione delle esperienze e delle conoscenze delle donne, attraverso l’instaurazione di rapporti tra donne,  attraverso la negazione della  perdita di sé e della propria memoria storica. Questo potenziale trasformativo passa tramite la creazione di un  “luogo  di separatismo visibile” [2], che evidenzia il conflitto tra i sessi ed è fondativo di un nuovo modo di intendere i rapporti tra donne ed affermare la loro presenza collettiva nella storia: il separatismo dunque come criterio di conoscenza il cui referente è il femminile.

 

2. I programmi

Abbiamo tentato di esporre per grandi linee lo sviluppo dell’idea del Centro Culturale Virginia Woolf ed abbiamo ritenuto utile estrapolare dalla lettura dei programmi i seguenti passaggi significativi.

1981: la rottura degli argini, il desiderio di comunicazione

I primi tre anni del Centro si focalizzano su seminari distinti per materia e non comunicanti tra loro, dai quali hanno origine una serie di interrogativi relativi alla didattica, alle metodologie, al rapporto tra docente e discente: i seminari dal 1981 però iniziano a comunicare tra loro su questi temi e a discutere del senso del trovarsi a studiare tra donne e di farlo in una “istituzione” separata[3].  Di anno in anno si tenta di rispondere agli interrogativi sulle questioni che emergono dallo studio delle diverse discipline. Nascono anche gli “Incontri su tema”, incontri focalizzati su argomenti specifici, su “temi meno tradizionali”[4]. I gruppi di studio poi degli anni precedenti, gruppi concentrati su temi specifici e orientati verso una certa produttività, a metà anno prepareranno una relazione orale pubblica e una scritta a fine anno, per condividere il lavoro svolto. Quindi possiamo dire che i diversi gruppi, le diverse realtà didattiche iniziano a comunicare tra loro, sentono l’esigenza di connettersi e condividere le riflessioni e gli approfondimenti sui diversi temi. Alcuni degli argomenti trattati sono: l’immagine della donna, tecniche dell’opera d’arte, linguaggi cinematografici (seminario sul cinema), epistemologia e logica (filosofia), il romanzo femminile italiano degli anni settanta (letteratura), l’origine della psicanalisi e la sessualità femminile (psicanalisi), la donna e la medicina (psicologia e medicina), etc.

1981/1982: l’ipotesi di ricerca

A dimostrazione del fatto che il Centro  fosse un luogo di sperimentazione in cui si delineavano in itinere  percorsi di conoscenza e uno spazio critico, assistiamo nel programma 1981/1982 ad un ulteriore cambiamento. Il 1981/82 viene definito dalle organizzatrici un anno “più ambizioso degli altri”[5], poiché viene avanzata un’ipotesi di ricerca denominata “L’ambiguo materno”. Partendo dalla definizione di Betaille in La letteratura e il male, testo oggetto di studio dell’anno precedente, della “perdita di sé” nell’esperienza mistica, in quella erotica e nella primissima infanzia, si aggiunge una quarta esperienza di “perdita di sé” che le partecipanti al corso dell’anno precedente avevano asserito essere centrale nella propria esistenza e cioè la maternità, che si configura non come istante ma come condizione esistenziale. Il materno viene assunto come tema centrale sul quale le donne recuperano la parola, si crea uno spazio per far parlare tutte le donne della propria esperienza della maternità, le donne, si dice, “confischeranno, almeno in parte, il potere del parlare della maternità, della donna, del femminile ai soli esperti, agli specialisti di settore. Si tratta di una sorta di occupazione dello spazio di un discorso, il cui risultato crediamo possa essere estremamente ricco, tale da produrre un avvenimento cioè qualcosa che fa saltare agli occhi quello che nessuno vedeva[6]. Questo il filo conduttore, i cui rischi vengono riconosciuti dalle organizzatrici, dei diversi seminari e gruppi di studio, che lo affronteranno da diversi punti di vista. Questi alcune delle proposte di lavoro sul tema: l’uso del concetto di “femminile” nel discorso scientifico, politico, religioso, l’ideologia medica sull’istinto materno, l’immagine e il corpo della donna nella medicina, i modelli di maternità e i mezzi di intervento statale per la sua realizzazione, la maternità nella pittura, nel lavoro, etc. etc.

Anche nel programma del 1983 la modalità di lavoro rimane il tema unico, in quanto le organizzatrici ritengono  consenta di approfondire un singolo argomento da diversi punti di vista e consenta anche scambi tra i diversi gruppi. È l’anno dell’ “L’indecente differenza”: la donna “soggetto molteplice, contraddittorio”[7] ora soggetto di conoscenza e non più oggetto, si manifesta dopo la crisi del soggetto assoluto, coerente. Si parlerà del passaggio dal silenzio del soggetto assoluto allo spazio del discorso aperto dalle donne. Gli argomenti dei seminari: identificazione e differenza (processi di costruzione dell’identità femminile attraverso il racconto, la discussione, l’elaborazione), l’esperienza del tempo, etc. L’83 è anche l’anno del cambio di sede, il Centro abbandona la sede del Governo Vecchio, la Casa della donna, per spostarsi in una sede provvisoria, il Centro di S. Paolo alla Regola, che tra l’altro era usufruibile solo per 3 giorni a settimana. Le ripercussioni sul lavoro del Centro sono evidenti e vengono lamentate dalle organizzatrici.

Nel 1984 il problema della sede ancora non ha soluzione, dicono le organizzatrici “la precarietà rende tutto più difficile. La mancanza di un luogo, di uno spazio di riferimento, fa sì che i problemi organizzativi diventino quasi insormontabili in una fase in cui il movimento sente fortemente l’esigenza di confronto e dibattito continui”[8]. Nonostante tutte le difficoltà il Centro va avanti e va avanti con la struttura del tema unico, quest’anno sarà “L’eccesso”. Viene eliminata la distinzione per discipline dei corsi, le docenti sentono l’esigenza di una maggiore interdisciplinarità, del confronto costante tra i diversi approcci sui nodi emersi nel corso degli anni precedenti. Nascono i gruppi di riflessione, spazi stabili di incontro su temi generali di politica. Uno dei gruppi di riflessione si occuperà tra l’altro dei problemi emersi nel corso degli anni nello svolgimento del lavoro da parte del gruppo organizzatore. In particolare ci sarà il gruppo di riflessione “Ri/pensiamoci. La politica delle donne oggi: analisi di alcune esperienze condotte in questi anni”, in cui ci si interroga sulle iniziative delle donne al fine di tentare di rispondere ad alcune domande fondamentali: “qual è la politica delle donne? Quale idea della e dei modi di aggregazione femminile si intrecciano all’interno di queste iniziative?”[9]. L’anno successivo, il 1985 si parlerà del limite (Sul limite. Il problema dei confini nell’esperienza femminile)

1987: il potere

I testi di apertura quest’anno, vista la complessità dell’argomento, saranno quattro e non più uno come negli anni precedenti. Vincere cosa, vincere cosa. La nostra questione con il potere di Alessandra Bocchetti e Luisa Muraro, Identità e ricerca scientifica di Gabriella Frabotta, Modi di pensare di Francesca Molfino e Problemi di potere e differenza sessuale di Bia Sarasini. Su questo tema dicono le stesse organizzatrici “esistono reali divergenze”[10] che vengono esplicitate al fine di “accogliere la sfida difficile e decisiva della pratica delle differenze tra donne”[11].

1988: il titolo del programma dell’’88 è molto chiaro “Lo stato delle cose: separazione si, scissione no”. Il Centro sperimenta una struttura nuova, si divide in due sezioni distinte. Le differenze oggetto di incontri, dibattiti, scambi soprattutto dell’anno precedente sono diventate più “evidenti”, le divergenze che erano state “risolte” con i  quattro elaborati di apertura del programma del 1987, avevano in effetti creato disorientamento nelle utenti e nelle docenti, tanto che è stato necessario pensare ad un cambiamento profondo e quindi ad una strutturazione diversa del Centro. Emergono dalla lettura del programma dell’’88 una serie di questioni, che danno l’idea di una frattura non più ricomponibile e anche di una volontà di cambiamento di una situazione percepita come insoddisfacente per tutte. Questa la differenza di fondo: il Gruppo A riteneva che il confronto tra posizioni diverse fosse fruttuoso quando è chiaro l’oggetto del discorso, il confronto veniva assunto come elemento base del proprio metodo di lavoro. Il Gruppo B invece  riteneva che al momento fosse più utile lavorare con chi condivideva una posizione, per dar modo di approfondirne alcune aspetti e avanzare nella riflessione. Perché però dicono no alla scissione? Così rispondono le organizzatrici del Centro:  “Diverso ci è apparso un progetto di scissione che avrebbe comportato una vera rottura, un vanificarsi delle ricchezze che in questi anni il Centro Culturale Virginia Woolf ha accumulato con il proprio lavoro nel mondo delle donne. Forse è una scommessa: siamo consapevoli di non avere modelli. Con questa scelta cerchiamo di evitare di percorrere una strada che ha portato troppo spesso le donne alla distruzione dei loro progetti e all’azzeramento di quello che insieme avevano saputo costruire. Vogliamo sperimentare con lucidità questa ipotesi, disponibili a verifiche, pronte a nuovi cambiamenti”[12]

 

Da questa breve disamina dei programmi del Centro Culturale Virginia Woolf  ci sembra emerga un progetto assai articolato, un progetto che in corso d’opera è stato modificato, ha subito profonde revisioni sul piano metodologico e tematico per rispondere alle esigenze di conoscenza e trasformazione del reale che via via venivano affermate.

Ci chiediamo oggi come mai un progetto così complesso abbia lasciato poca memoria di sé e come mai in generale sia così problematica per le donne la trasmissione del sapere, la sua stratificazione e conseguentemente la sua stabilizzazione. Cosa continua ad arrestare il processo di accumulazione e sedimentazione dei saperi? Si è riuscite in maniera talvolta magistrale a mettere in discussione e contrastare le epistemologie classiche, a “marcare al femminile la differenza” [13], sfidando “il neutro sul terreno stesso della sua neutralità”[14], si è riuscite ad esprimere in modo così efficace la dolorosa contraddizione dell’essere dentro e fuori la cultura, dell’ essere nel linguaggio, così come nella storia e nella cultura tutta, esuli in patria, abbiamo scavato con le unghie ed oggi sembra essere necessario riprendere alcuni di quei nodi tematici che hanno caratterizzato la parte più proficua e intelligente del femminismo. Riteniamo necessario continuare forse con più rigore, un percorso teorico, politico, pratico che sia in grado di cambiare davvero i modi in  cui le donne costituiscono loro stesse, per cambiare davvero le relazioni e la cultura, avvertiamo l’esigenza di trovare strumenti di analisi nuovi per il presente.

In particolare vorremmo che si riprendessero alcuni discorsi e si iniziasse a parlare con spirito nuovo del nesso tra teoria e pratica, della definizione del personale e del politico e soprattutto delle relazioni che intercorrono oggi tra i due aspetti e vorremmo lo si facesse tentando di trarre spunto dal passato sì, ma assumendoci la responsabilità di portare avanti una riflessione autonoma sul presente e sul futuro. Allo stato attuale dobbiamo constatare, sulla base della nostra osservazione del presente e della nostra esperienza politica e personale, una lacerazione profonda, rispetto a questi temi, tra ciò che si professa e si asserisce sul piano teorico e ciò che praticamente si è disposte a mettere in campo nelle nostre relazioni, dobbiamo constatare la distinzione e la mancata integrazione tra il personale e il politico, la difficoltà nel risolvere l’interrogativo dentro/fuori, di trovare soluzione alla contraddizione tra la legittima  ambizione ad occupare spazi all’interno delle accademie e delle strutture del sapere e la critica radicale al sistema dei saperi e all’istituzionalizzazione degli stessi: insistono dunque da un lato la legittima aspirazione a far parte del sistema dei poteri, anche se in modo diverso e dall’altro la critica a questo sistema e la necessità di divenire istituzioni di sé stesse.

In Italia oggi il femminismo e la sua storia sono in parte nelle università e ci chiediamo in che modo questa possa essere, se può esserlo, fucina di nuove leve per la contemporaneità ed è nelle associazioni che si occupano di violenza contro le donne e in parte in quelle che si occupano di tante cose, tra le quali anche le donne. Queste due realtà comunicano? In che modo? Devono comunicare? Il femminismo Americano e in parte quello europeo sono riusciti a conquistare dignità scientifica, in Italia questo è accaduto in maniera residuale. Come influisce su questo la mancata elaborazione di una soggettività non identitaria, che sia in grado di riconoscere e valorizzare le differenze tra donne, facendo di questo uno strumento di trasmissione di conoscenza? Ed in che modo influiscono le nostre relazioni? Ci troviamo ancora oggi a vivere la contraddizione di essere dentro e fuori, dentro e fuori il linguaggio, la cultura, la storia: che cosa non sta funzionando?

 

3. Soggetti all’orizzonte…l’orizzonte dei soggetti

Il tentativo di trovare la giusta misura tra l’unità, l’integrità e la molteplicità indeterminabile e infinita ha impegnato il Centro Culturale Virginia Woolf in maniera più o meno consistente: il soggetto inaudito dell’86[15], il Soggetto complesso dell’88[16]. Al centro delle diverse riflessioni l’esigenza di pensare e costruire un soggetto diverso, non assimilato al maschile, non assoluto, di attribuire un senso diverso al femminile. La costruzione di un soggetto nuovo nasce creando una distanza tra sé e le stratificazioni di senso attribuite nei secoli al femminile, ponendosi al centro della conoscenza di sé, come appunto soggetti di conoscenza. Gabriella Frabotta per esempio delinea un itinerario errante per la costituzione della soggettività femminile, dice infatti “Movimenti di fuga e ritorno giocati tra adesione ed estraneazione, illusione e delusione, scelta e dipendenza, investimento e scacco. Ma attraverso quali diverse connessioni possiamo ricostruirci, nella nostalgia, un nuovo patto di solidarietà? Rispetto a questo essere ovunque e altrove con un riferimento che non dimentichi anche la corporeità delle nostre singole esistenze, tale patto non può collocarsi esclusivamente nel fatto di essere donna[17]. O ancora Bia Sarasini si chiede “Chi è l’altra donna? È identica, uno specchio riflettente? È differente? E allora come? Per età, classe, razza? Si può supporre che l’io sono dell’altra sia identico al mio?”[18]. Queste domande hanno avevano che fare ieri come oggi con la ricerca ancora incessante di un criterio di appartenenza che renda conto della complessità dell’esistenza. A che punto è oggi l’analisi critica dei processi di costruzione sociale e culturale dei soggetti? In che modo sono cambiate alla luce di tali processi le relazioni tra donne? In che modo il pensarsi  soggetti di conoscenza ha modificato le “donne” e le loro relazioni? In cosa oggi ci riconosciamo in quanto donne e siamo insieme in quanto donne, qual è il criterio di appartenenza che ci lega? Possiamo ancora dire “noi donne”? O dobbiamo forse ancora interrogarci sulla fisionomia, struttura, senso di questa appartenenza?

La necessità di radicamento attraverso l’auto-rappresentazione, di stabilizzazione dei saperi, l’esigenza di costruire un insieme di saperi sistematici a cui fare riferimento da un lato e la lotta per la liberazione, l’autodeterminazione, la centratura su sé stesse, sono i due aspetti cruciali delle questioni sulla quale ci stiamo interrogando. Come rispondiamo oggi al bisogno di identificazione, alla ricerca di punti di contatto col passato per farne memoria storica, sapere sistematico e al bisogno di liberazione dalla miseria, dalla violenza fisica, simbolica, metaforica, linguistica, storica, etc. etc. e in genere alla liberazione dai sistemi chiusi di autorappresentazione. Le nostre domande hanno a che fare con il modo attraverso il quale costruiamo la nostra soggettività, al modo in cui impariamo a determinare noi e la realtà, al modo in cui interpretiamo le nostre esperienze, oltreché ovviamente alle esperienze stesse. Sentiamo l’urgenza allora di approfondire la riflessione critica sui processi di costruzione della soggettività, sui meccanismi di soggettivazione e di aggregazione, sconfinando dal terreno sicuro della differenza sessuale; sentiamo l’urgenza di inserire nella nostra riflessione ancora una volta la materialità dei corpi, coi suoi limiti, le sue sfide, le sue catene e i suoi punti di fuga; l’elemento dell’esperienza diventa centrale nel  nostro panorama interpretativo, esperienza a cui vogliamo restituire corporeità e sapere. La pratica politica si profila così come il punto di intersezione tra sociale/culturale ed individuale, tra personale e politico, in sostanza tra me e l’altra [19]: delineare la “fisionomia”, le dinamiche, i punti di forza e di rottura di questo incontro diventa per noi un compito inderogabile. Abbiamo analizzato i dispositivi discorsivi che producono le identità e i corpi: è bastato riconoscerli e svelarli per liberarsene? In che modo si insinuano ancora nelle nostre esistenze? Abbiamo svelato l’ideologia del genere, ne abbiamo messo in scena i costrutti assiologici puntando la nostra attenzione su soggetti che eccedono la norma rendendola visibile e ne abbiamo diminuito il potere trasformativo, abbiamo imitato, parodiato [20], criticano, sminuito la portata del potere, decostruito e ricostruito. Siamo approdate alla fase post-identitaria dei corpi, alla loro de naturalizzazione: in che modo è cambiata la nostra esistenza? In che modo sono cambiati i nostri modi di stare insieme?

Riporto un passo di Irigaray che mi sembra illuminante: “Bisogna nuovamente (s)cavare quello-colui che parla, vede, pensa e pertanto si attribuisce l’essere in una autosufficienza che è anche una prigione, ed in una chiarezza fatta d’ombre negate. […] Ma siccome l’occhio è il guardiano della ragione, per prima cosa occorre che riesca ad uscire senza essere visto(-a). Non solo, ma senza neanche vedervi tanto” [21].

Possiamo dire certamente di aver (s)cavato, di essere riuscite ad uscire senza essere viste, ma possiamo dire di aver davvero abbandonato la nostra vista?

 


[1] Cfr il programma del 1981.

[2] Una Università tutta per sè, intervista ad Alessandra Bocchetti, Effe 1979/80 n.2

[3] Programma del 1981, pag. 3.

[4] Ivi.

[5] L’ambiguo materno, programma 1981/’82, pag. 3.

[6] Ibidem, pag. 7.

[7] Ibidem, pag. 10.

[8] L’eccesso, programma del 1984, pag. 3.

[9] Ibidem, pag. 35.

[10] Programma del 1987, Pag. 3

[11] Ivi.

[12] Ibidem, pag. 5.

[13] Patrizia Calefato, Genesi del senso e orizzonti del femminile: figure, orizzonti, nome, Idee 13-15, 1990, pp. 79-93

[14] Ibidem

[15] Il soggetto inaudito. Breve dialogo sulla differenza sessuale, Centro Culturale Virginia Woolf-Università delle donne, programma del 1986

[16] Il soggetto complesso, Centro Culturale Virginia Woolf-Università delle donne, programma del 1988.

[17] Ibidem, pag 29.

[18] Ibidem, pag 43.

[19] Cfr. T. De Lauretis Sui generis: scritti di teoria femminista, Feltrinelli, Milano, 1996.

[20] Cfr. T. De Lauretis Alice doesn’t: feminism. semiotics. Cinema, Macmillan, 1984 e Judith Butler Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, 2004.

[21] L. Irigaray Speculum. L’altra donna, Feltrinelli, Milano, 1993, p. 180.

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